Esportare o non Esportare?
Il nostro “Bel Paese” è internazionalmente riconosciuto come polo di eleganza, moda e artigianalità.
Questa è una leva culturale che gli imprenditori del settore calzaturiero possono certamente sfruttare per vendere le proprie calzature al di fuori dei confini nazionali.
In base ai dati di Assocalzaturifici, nel 2022, il nostro Paese si è confermato il primo produttore di calzature dell’Unione Europea (161,9 milioni di paia prodotte, vale a dire 1/3 del totale). È il dodicesimo produttore per numero di paia e ottavo Paese esportatore in volume, ma il terzo in termini di valore, dietro a Cina e Vietnam (World Footwear Yearbook, edizione 2023).
Nei dati elaborati dal Centro Studi di Confindustria Moda, l’export calzaturiero italiano ha raggiunto nel 2022 un fatturato pari a 12,65 miliardi di euro, con un incremento del 23% sul dato del 2021.
Esportare, dunque, è sicuramente una scelta strategica per gli imprenditori del settore calzaturiero italiano che possono guardare ai mercati esteri come mercati floridi.
Cosa fare allora per esportare all’estero?
Con questo contributo vogliamo fornire un vademecum dei 9+1 passi fondamentali da seguire per esportare calzature all’estero e sfruttare al meglio questa straordinaria leva commerciale.
Analisi Di Mercato: Feasibility Study
La prima cosa da fare è analizzare il mercato in cui si vuole vendere in termini economici nonché ambiente, cultura, popolazione e usanze. Ciò senza dimenticare le caratteristiche del proprio prodotto.
L’azienda può quindi scegliere consapevolmente dove e come avviare le attività, decidendo se:
- incaricare un procacciatore che segnali, solo occasionalmente, possibili opportunità commerciali;
- incaricare un agente commerciale;
- stipulare un contratto con un distributore con o senza esclusiva sul territorio;
- costituire una filiale (c.d. branch) o una società, distributiva o produttiva, nel territorio.
Sarà anche possibile studiare prodotti ad hoc per il mercato di riferimento o modalità di vendita coerenti con la cultura del paese in cui si intende esportare.
Tutela del marchio aziendale e del prodotto
La seconda e propedeutica questione su cui concentrarsi è sicuramente la tutela del marchio nonché del prodotto, tramite il deposito di marchi, brevetti o design.
Tal elemento può costituire un forte elemento distintivo aziendale e il cuore del suo successo.
Si pensi, ad esempio, a grandi marchi come il marchio Ferragamo e alle numerose invenzioni e design tutelati dall’azienda che oggi – dopo aver contribuito alla notorietà in tutto il mondo – sono addirittura in mostra in un museo, in ragione del loro elevato valore culturale, oltre che commerciale.
Ma perché dovremmo tutelare il marchio, il design o il brevetto relativo ad un prodotto?
La tutela della proprietà industriale aziendale, sia in Italia che all’estero, ha come principale obiettivo quello di ridurre i rischi di contraffazione e di accrescere il valore aziendale, così da dare un boost alle vendite dei prodotti con l’obiettivo di farli diventare sempre più riconoscibili ed ambiti.
Queste tutele consentono all’azienda anche di disporre di idonei strumenti giuridici per agire nei confronti dei contraffattori, non solo in Italia ma anche all’estero.
I beni immateriali aziendali possono essere valorizzati in bilancio, accrescendo il valore dell’azienda e sono sinonimo di affidabilità commerciale e di prodotto. Questo è ancora più vero quando gli interlocutori nel paese estero di riferimento siano Grandi Magazzini o catene di negozi che possono conferire al prodotto elevata diffusione e visibilità.
Verifica di compliance del prodotto
Imprescindibile rispetto alle attività di vendita all’estero è la verifica preliminare delle caratteristiche del prodotto.
Per prodotti di consumo che non hanno una forte regolamentazione di conformità, come le calzature, in genere non sono richiesti particolari adeguamenti di prodotto.
Nonostante ciò, una analisi preliminare è fondamentale per identificare le norme applicabili al prodotto per tentare di facilitarne l’esportazione.
Ad esempio, un prodotto con tomaia in tessuto, il cui peso della parte della tomaia in tessuto sia superiore al 51% del peso totale della tomaia, sconterà dazi di oltre 3 volte superiori rispetto ad un prodotto in cui la percentuale di tessuto sia inferiore.
Se il prodotto è fabbricato con pelli pregiate o esotiche (coccodrillo, pitone e simili), invece, occorrerà ottenere la certificazione CITES e, in alcuni paesi, come gli Stati Uniti d’America, occorrerà che l’importatore abbia una specifica licenza di importazione per poter importare il prodotto.
Etichettatura, imballaggi e comunicazione
In Italia, l’etichetta delle calzature deve contenere alcune informazioni obbligatorie sulle tre parti che compongono la calzatura:
1 – TOMAIA
2 – RIVESTIMENTO E SUOLA INTERNA
3 – SUOLA ESTERNA
L’etichetta deve essere il lingua italiana e deve fornire informazioni relative al materiale di composizione della calzatura. Deve avere dimensioni tali da rendere agevole la comprensione delle informazioni contenute nell’etichetta.
Parlando di materiali, nel 2020 è stato emanato il cd. Decreto Pelle, che regolamenta l’uso di termini come «cuoio», «pelle» e «pelliccia» anche in lingua diversa dall’italiano per materiali o prodotti composti da materiali che non rientrino nella relativa definizione normativa di tale materiale.
A queste e altre previsioni di settore si aggiungono, per quanto applicabili, le disposizione generali previste dal Codice del Consumo, applicabili anche in tema di ambiente e sostenibilità, oltre che, a decorrere dal prossimo dicembre 2024, del regolamento europeo relativo alla sicurezza generale dei prodotti.
Quindi, se state utilizzando materiali che definite “vegani”, “green”, “environmental friendly”, questi termini sono da rivedere e anche il termine “pelle vegana” è vietato e da evitare.
Inoltre, in Italia, dal gennaio 2023, occorre applicare sul prodotto anche l’etichettatura ambientale relativa allo smaltimento degli imballaggi.
Ma cosa è previsto negli altri paesi?
Le informazioni obbligatorie da indicare sui prodotti cambiano da paese a paese, e non si tratta solo di una variazione terminologica o linguistica, ma di sostanza.
Ad esempio, in Francia, i fornitori devono (i) applicare in etichetta il logo Triman e i loghi relativi allo smaltimento del prodotto sui prodotti stessi (ii) aderire alla eco-organizzazione di riferimento (per il settore abbigliamento è ECO TLC/ REFASHION) e (iii) pagare i relativi contributi di smaltimento annuali in base al numero di prodotti immessi sul mercato.
Inoltre, sempre in Francia, è obbligatorio fornire due informazioni aggiuntive sui prodotti tessili e le calzature:
- indicazione della tracciabilità geografica delle tre principali fasi di produzione (tessitura, tintura, assemblaggio/finitura);
- avvertenza specifica in riferimento ai prodotti tessili che presentano oltre il 50% di fibre sintetiche e che rilasciano microfibre di plastica durante il lavaggio.
Questi obblighi sono sanzionati dalle autorità nazionali.
Una analisi Go-To-Market nei singoli paesi è quindi fondamentale.
Condizioni generali di vendita per l’estero: le regole del gioco
Altro elemento fondamentale nelle vendite internazionali sono le previsioni contrattuali.
Avete già le vostre condizioni di vendita? Sono adeguate a vendere all’estero?
Se la risposta è affermativa siete già a buon punto.
Le aziende che si rivolgono ai mercati esteri, siano europei o extra-europei, devono assolutamente dotarsi di condizioni generali di vendita redatte tenendo conto dei propri obiettivi e operatività: sono il contratto ideale con il quale l’azienda consegue il massimo risultato dalla propria attività d’impresa.
Lancereste una monetina per decidere se subire o meno un danno?
Quando l’azienda non fa sottoscrivere termini contrattuali ai propri acquirenti sta lanciando una monetina pre ogni vendita che esegue, soprattutto quando la vendita avviene in ambito internazionale.
Nei rapporti con l’estero non occorre solo dotarsi di condizioni contrattuali, ma anche che siano adeguate a regolare rapporti con elementi di internazionalità.
Non possono essere una mera traduzione delle condizioni utilizzate per i rapporti con clienti italiani.
Si pensi, ad esempio, nell’ambito di un rapporto di agenzia con un agente estero, alla scelta di una legge di un paese terzo che non prevede a favore dell’agente il pagamento di una indennità di fine rapporto che può giungere ad importi consistenti, pari ad una annualità intera di provvigioni.
Scegliere la legge giusta, quando ciò sia possibile, può evitare un esborso non indifferente a carico dell’azienda.
Oppure ad un contratto sottoscritto da un fornitore italiano con un distributore americano che preveda la risoluzione delle controversie presso il tribunale italiano. Sarebbe sostanzialmente impossibile o estremamente dispendioso, in termini sia di tempo che di denaro, il recupero di eventuali crediti da parte del fornitore italiano nei confronti del distributore americano.
Pensate che questi documenti possano ingessare e limitare l’operatività aziendale? In realtà, non è così.
Una buona tutela può essere ottenuta – semplicemente – tramite la sottoscrizione di un ordine e di una conferma d’ordine che richiamino però le condizioni generali di vendita contenenti alcune previsioni fondamentali per l’azienda.
Esportazione: Certificazioni di prodotto e adempimenti doganali
Altro elemento importante per vendere all’estero è identificare correttamente la natura del prodotto, così da poter identificare (i) codice doganale (ii) tariffe doganali o preferenziali, (iii) documentazione necessaria a procedere con l’esportazione dall’Italia e l’importazione nel paese di riferimento (iii) origine del prodotto e conseguentemente il “Made In”.
Nell’Unione Europea vige il principio di libera circolazione delle merci.
Le vendite eseguite in Europa, le cosiddette “cessioni intracomunitarie”, non richiedono adempimenti né dazi doganali.
L’esportazione di un prodotto al di fuori dell’Unione Europea, invece, sconta adempimenti e dazi doganali che saranno individuati ed applicabili in base alla analisi eseguita sul prodotto e al codice doganale attribuitogli. Quando esistono regimi commerciali speciali (come gli accordi di libero scambio o l’SPG), le tariffe sono talvolta inferiori o nulle. Fare l’analisi doganale risulta essenziale.
Ad esempio, in Messico, i prodotti “Made In Italy” sono esenti da dazi qualora sia stato ottenuto e presentato il certificato EUR1, mentre in Canada in virtù dell’accordo bilaterale di libero scambio CETA i prodotti con origine preferenziale EU non scontano dazi doganali.
Origine preferenziale o non preferenziale dei prodotti (c.d. «Made In»)
Quanto al “Made In”, esso esprime l’origine c.d. “commerciale”: è l’elemento che identifica il paese di fabbricazione di ciascun prodotto e lo accompagna nella fase di commercializzazione.
La dicitura “made in Italy” su un prodotto finito può essere apposta solo dopo aver eseguito una verifica sulla origine preferenziale o non preferenziale della merce ai sensi del Codice Doganale Comunitario e poter quindi beneficiare della dicitura “Made in Italy”, che tanto viene apprezzata all’estero.
La normativa italiana e, in particolare, il Codice del Consumo impone l’obbligo di non fornire al consumatore, indicazioni false, fallaci o ingannevoli circa l’origine geografica dei prodotti. Ma vi sono analoghe previsioni normative in Europa poste a tutela del consumatore.
Pertanto, attenzione ad apporre l’indicazione “Made In Italy” su un prodotto, in assenza delle caratteristiche richieste dalla legge e senza aver eseguito le opportune verifiche circa l’origine del prodotto ai sensi del Codice Doganale Comunitario. Tale pratica potrebbe costituire pratica ingannevole sanzionabile ai sensi del Codice del Consumo con sanzioni pesanti e molto onerose nei diversi paesi di commercializzazione dei prodotti potendo creare anche gravi danni in termini di immagine e credibilità aziendale.
Potenziali retailers o partner commerciali: agenti, distributori, franchisee… influencer e content creator?
La profittevole commercializzazione dei prodotti sui mercati esteri, nella maggior parte dei casi, passa dalla identificazione di retailers, agenti, distributori o altri partner commerciali sul territorio.
Cosa dire degli influencer o content creator per aiutare a creare consapevolezza del brand nel territorio?
La scelta dei partner sul territorio risulta essenziale, ivi inclusa la collaborazione con influencer o content creator, soprattutto quando l’azienda voglia puntare sulla propria immagine e quella del prodotto. Sulla base di linee guida concordate con il fornitore, potranno accrescere la conoscenza (e il valore) del marchio sul mercato.
Come è possibile identificare possibili partner all’estero?
Le modalità possono essere le più disparate: eventi, fiere nel territorio, consulenti commerciali specializzati a identificare partner nei paesi di riferimento corrispondenti al target aziendale.
Occorrerà poi verificare l’affidabilità di questi partner sia sotto il profilo commerciale, che della solidità aziendale e finanziaria, eseguendo un breve audit.
Consolidamento dei rapporti commerciali e redazione di contratti commerciali ad hoc
Avendo eseguito tutte le attività precedenti è molto probabile che l’azienda e il partner commerciale vogliano consolidare il rapporto, vedendo nella collaborazione reciproche opportunità di crescita guadagno.
In questi casi, si negoziano con i partner appositi contratti di agenzia o di distribuzione che consentono di ragionare su base pluriennale in termini di promozione sul territorio e di crescita del fatturato.
Si potranno valutare sistemi di distribuzione selettiva, con precise caratteristiche e clientela target, o di franchising, tutelando così il marchio, il design e l’immagine del fornitore con accrescimento del valore dei beni immateriali aziendali, dei prodotti e del valore aziendale complessivo.
+ 1 – Qualche consiglio pratico…
- La chiarezza è essenziale. Consigliamo di comunicare in modo semplice e anche ciò che è ovvio.
Le parti hanno culture ed abitudini diverse: intendersi non è sempre semplice.
- Valutare rischi, benefici e costi associati alle diverse scelte commerciali e contrattuali possibili: non essere previdenti può risultare molto costoso.
- La normativa internazionale ed europea è sempre più attenta ai temi dell’ambiente e delle sostenibilità a tutti i livelli aziendali. Le aziende che sapranno anche sfruttare le leve legate alla sostenibilità (alcune norme saranno già in vigore dal 2024 in base alle caratteristiche dimensionali aziendali) trarranno ancora più benefici in termini di interesse sui propri prodotti a livello internazionale.
- I Contratti: le clausole devono essere scritte in modo sintetico, chiaro e comprensibile per tutte le parti coinvolte e richiamare, quando possibile standard internazionali (Convenzioni, Incoterms ICC, ecc). Scegliere attentamente legge applicabile e risoluzione delle controversie, evitando abbinamenti “fantasiosi” e inattuabili dai giudici (es. scelta della legge italiana e tribunale cinese).
- Diffidare della mera traduzione dei testi utilizzati per l’Italia, non tengono in considerazione l’internazionalità del rapporto e non saranno adeguati: spesso possono risultare controproducenti.
- Coinvolgere legali specializzati in diritto internazionale perché sappiano gestire al meglio le variabili di internazionalità e sappiano scegliere legge applicabile e la risoluzione delle controversie con consapevolezza e ponderazione.