Speciale Marketing Sostenibile
In questo speciale facciamo luce su ciò di cui sentiamo parlare sempre più spesso: il marketing sostenibile, o green marketing. Pur essendo termini nati negli anni ’80, in questo periodo pandemico la diffusione degli stessi sembra aver preso uno slancio tale da rendere quantomeno doveroso informarsi e comprenderne il vero significato.
La premessa di questo speciale è questa: dall’inizio della pandemia l’attenzione dei consumatori verso l’ambiente è aumentata notevolmente. Sono aumentate le ricerche di prodotti e marchi sostenibili, e come ben sappiamo il mercato si sta muovendo di conseguenza.
Definizione di Green Marketing
Il concetto di Green Marketing racchiude in sé un insieme di strategie globali solide e coerenti che le aziende mettono in campo dall’ideazione del prodotto, alla vendita, fino allo smaltimento del rifiuto finale.
Il concetto di “green” non è limitato ad alcuni prodotti, servizi e ambiti particolari, ma tende a integrare il modello di marketing mix delle 4 p (prodotto, prezzo, posto, promozione) teorizzato da Jerome McCarthy, portandolo ad un livello superiore attraverso la co-creazione e la collaborazione con i clienti finali che, consapevoli del processo virtuoso in tutte le sue fasi, riconoscono un maggiore valore al prodotto scelto.
Da tali atteggiamenti ne conseguono ricavi tangibili per le aziende e le ricadute positive sull’intero ambiente. Quando parliamo di Green Marketing, pertanto, ci riferiamo a un sistema globale che richiede anche stili di vita differenti in cui le pratiche virtuose di alcuni rappresentano vantaggi per tutti.
Panoramica della comunicazione sostenibile nel settore calzaturiero
E’ impensabile non trovare una sezione o uno slogan “Sostenibilità” all’interno di un sito web, poiché tutti vogliono comunicare l’impegno che hanno preso nei confronti dell’ambiente.
“Una soluzione più intelligente per te e per il pianeta” Adidas
“Un passo sostenibile” AllBirds
“Spingi fino al traguardo scegliendo la via della sostenibilità” Nike
“Uno stile sostenibile” Ralph Lauren
Ma di quali impegni parliamo?
Gran parte di questi sono legati all’Agenda 2030: utilizzo di materiali ecologici, riduzione delle emissioni di CO2, impegni sociali. Riguardo questi ultimi, è bene sapere che quando parliamo di “sostenibilità” dobbiamo includerli nel nostro piano aziendale, poiché la sostenibilità non riguarda solo l’ambiente ma anche l’aspetto sociale della produzione.
La comunicazione sostenibile include messaggi facilmente comprensibili, ripetitivi, spesso accompagnati da numeri e approfondimenti come report e statistiche, nonché una timeline degli impegni passati e futuri.
Alcuni marchi mostrano pagine di approfondimento ricche di informazioni di ogni genere, prove di laboratorio, certificazioni di terzi a garanzia delle loro affermazioni. Altri mostrano pagine accattivanti con immagini che invogliano il consumatore all’acquisto, ma decisamente poco trasparenti, almeno per gli addetti ai lavori.
La linea che separa il green marketing dal greenwashing è sottile, e non possiamo aspettarci che sia il consumatore a notarla. Se è vero che il consumatore è più consapevole grazie ai mezzi di comunicazione, è altrettanto evidente che quando un marchio parla di sostenibilità le reazioni dei consumatori corrispondono a più “like e love” rispetto alle reazioni “angry” – queste ultime provenienti da chi comprende che quello che sta leggendo corrisponde ad una strategia di marketing.
Con il termine Greenwashing si definisce una pubblicità ingannevole e indica un modello di business, non sempre corretto, in cui le aziende, pur di sensibilizzare e dare attenzione ai propri prodotti e/o al proprio marchio nel mercato, smacchiano attraverso campagne pubblicitarie e strategie di marketing con slogan eco-sostenibili, ma che non corrispondo alla loro reale attività commerciale e produttiva.
Il termine Greenwashing, è stata coniato nel 1986 dal giornalista Jay Westerveld, e nasce dalla fusione della parola “green” che tradotta assume il significato di verde, nel senso di ecologico e “whitewashing” che significa dare la calce, metaforicamente inteso come nascondere, coprire o ripulire. È difatti allegorica la combinazione della definizione in quanto è stata attribuita alla contraddizione pubblicitaria di un resort il quale, pur di distribuire biglietti, invitava i propri clienti al riutilizzo degli asciugamani al fine di ridurre sprechi e inquinamento. Dalla fine degli anni ottanta da oggi altre forme di Greenwashing sono state impiegate da diverse aziende come quelle eclatanti della Chevron, DuPont, Walmart e British Petroleum. In Italia, dopo diverse sanzioni commisurate a multe sino a 5 milioni di euro emanate dall’Antitrust e dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, la comunicazione ingannevole è arrivata fino al Tribunale di Gorizia, il quale ha emesso il 26 novembre 2021 un’ordinanza nei confronti dell’azienda friulana Miko (https://dinamicamiko.com/it/), che produce rivestimenti per auto in microfibra, di rimuovere tutte le pubblicità ingannevoli e di pubblicare sul proprio sito web l’ordinanza emanata dal Giudice.
Quale proibizione per il Greenwashing?
In sintesi nessuna. Molti impegni e molti piani ambiziosi sono stati avanzati dall’ONU e dall’Unione Europea riguardanti le produzioni sostenibili in un’ottica di concreta transizione “green”, ma una vera proibizione inibitoria che prevenga alle aziende di emettere una pubblicità ingannevole “Greenwashing”è ancora praticamente assente. A vigilare nella veridicità dei messaggi e delle comunicazioni pubblicitarie sono le diverse Authority dell’Antitrust, le quali sono autorizzate d’ufficio e su segnalazioni a controllare, valutare, sanzionare ai sensi del CODICE DEL CONSUMO e adottare misure cautelari per quelle aziende che proclamano slogan enfatici, confusionari e non veritieri, nonché di usare messaggi ingannevoli capaci di indurre a falsare le scelte dei consumatori.
Per quanto nessuna norma proibisce alle aziende di adottare delle strategie di marketing forti e incisive al cospetto della sostenibilità, il rischio è alto se queste non sono basate su comunicazioni autentiche, attendibili, che trovino riscontro nelle reali politiche produttive aziendali e che non nascondano gli ambiti nei quali il processo produttivo non sia ancora totalmente ecocompatibile. In realtà non esistono attività industriali che possono dichiararsi a impatto zero, quindi è opportuno che le comunicazioni commerciali che pubblicizzano benefici per l’ambiente e sensibilità ecologiche siano basate su dati chiari, trasparenti, autorevoli e rispondenti alla realtà scientifica in quanto passano attraverso il rigido e pervasivo controllo dell’Antitrust. Evitare sanzioni dall’Antitrust è pertanto doveroso per quelle aziende che non vogliono rischiare il capitale reputazionale e le conseguenze di pratiche di Greenwashing rappresentano un rischio di credibilità anche a tutte le altre aziende sane, che appartengono allo stesso comparto.
Gli impegni presi dai grandi marchi sono spesso reali, ma possono davvero parlare di sostenibilità nel momento in cui producono un paio di scarpe utilizzando un materiale ecologico? Pur mantenendo gli stessi identici standard di produzione?
Al momento non ci sono rigidi controlli comparativi che possano far chiarezza sulla comunicazione e sugli ambiti del processo produttivo, in quanto l’accettazione delle norme del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria e dei Regolamenti autodisciplinari da parte delle agenzie, consulenti di pubblicità e di marketing, gestori di veicoli pubblicitari di ogni tipo, per quanto garante non è obbligatoria. Nessuno può affermare con certezza si tratti di marketing o di impegni reali, ma quel che sappiamo è che si tratta di un argomento delicato a cui porre molta più attenzione.
La comunicazione influenza letteralmente le persone, e chi se ne occupa deve essere cosciente dei danni che può causare con la disinformazione.
I casi più frequenti di greenwashing:
- Si utilizzano affermazioni ambientali false o fuorvianti per il consumatore;
- Vengono applicate sul prodotto etichette contraffatte;
- Si comunicano informazioni sulla presunta sostenibilità del prodotto in modo “generico”;
- Non vengono forniti dati o informazioni significative rispetto a quanto dichiarato nella comunicazione;
- Le comunicazioni non sono supportate da certificazioni garanti;
La scelta dei materiali definisce i valori del brand: l’importanza del brand messages
Notiamo spesso discrepanze tra comunicazione e materiali utilizzati. L’esempio più lampante degli ultimi anni sono le alternative alla pelle di origine animale.
Sia i produttori di questi materiali, sia i marchi che hanno iniziato a farne uso, hanno incentrato la loro comunicazione sulla “presunta sostenibilità” degli stessi materiali, utilizzando come leva il fattore “cruelty free”.
L’esponenziale crescita di attenzione verso il mondo degli animali ha reso decisamente più semplice la comunicazione di queste aziende, le quali sono cresciute in modo organico: “condivise” dai consumatori “vegani”, oltre che dalle associazioni animaliste che le sostengono.
Il fatto che siano cruelty free non vuol dire siano anche sostenibili, è evidente. Ma perché vengono reputati tali? Semplicemente perché utilizzano come “ingredienti” delle sostanze vegetali, ad esempio AppleSkin utilizza scarti di mele, Vegea utilizza la vinaccia, Fruitleather utilizza il mango, e così via (qui è disponibile un elenco delle alternative alla pelle https://www.vestilanatura.it/pelli-vegetali-vegane/)
Alcuni utilizzano alte percentuali di “scarti” (70/80%) altri utilizzano solo il 20%, ma pochi fanno distinzione tra questi valori.
La mancanza di trasparenza porta i consumatori a pensare che un materiale realizzato con il 20% di fibre vegetali riciclate (attenzione: i consumatori non lo sanno), su classico supporto di poliuretano e miscelato con altre sostanze sintetiche (che hanno poco a che fare con la “sostenibilità”) sia più sostenibile di una pelle animale.
Comprendete quindi quanto il “brand message” sia stato efficace in ambito di comunicazione, ma allo stesso tempo quanto sia stato controproducente? Si è fatto credere ad un pubblico predisposto che questi materiali siano più sostenibili, ma in realtà non è così.
In questo caso le aziende avrebbero dovuto dire “proteggiamo il mondo degli animali”, “non utilizziamo materiali di origine animale”, “una parte di questo materiale deriva da…”, invece di sponsorizzarli come 100% sostenibili.
Cambiando genere, supponiamo di scegliere il cotone biologico certificato GOTS. Questo ci permette di parlare di sostenibilità ambientale (agricoltura biologica ed i suoi vantaggi, etc) e impegno sociale (diritti umani, salari dignitosi, riduzione delle malattie, etc), poiché gli standard di tale certificazione includono entrambi questi aspetti.
Se invece optiamo per un materiale riciclato, come potrebbe essere il poliestere, allora ci concentriamo sul messaggio ambientale (il problema della plastica, la plastica vista come una risorsa primaria, etc), non avrebbe senso parlare di impatto sociale, a meno che non ci siano validi motivi per farlo.
L’importanza delle certificazioni tessili per rafforzare la reputazione del brand: brand reputation
Al momento esistono due differenti strade da percorrere: la prima è quella dell’auto-promozione, cioè semplicemente comunicare i nostri impegni e le nostre scelte sostenibili. La seconda è quella di avere certificazioni garanti di queste affermazioni.
Le certificazioni devono essere viste come un rafforzamento della propria reputazione, appunto per evitare che il nostro messaggio venga visto come una strategia di marketing.
Alcuni esempi pratici: se vogliamo parlare di riciclo di risorse necessitiamo di certificazione GRS o simile. Se vogliamo parlare di impatto sociale potremmo aver bisogno della certificazione GOTS o Fairtrade. Se invece, vogliamo comunicare che durante la produzione siamo attenti all’uso di sostanze nocive per l’ambiente, la certificazione OEKO-TEX potrebbe tornarci utile.
Le certificazioni più comuni e facilmente riconoscibili dai consumatori sono: GOTS, Fairtrade, GRS, OEKO-TEX, FSC. Qui trovate un elenco: https://www.vestilanatura.it/certificazioni-tessili/
Le certificazioni hanno i loro limiti, soprattutto dettati dal fatto che vengono applicate da esseri umani e che sono a pagamento. I loro standard sono però eccellenti, e quando applicati alla lettera fanno davvero la differenza. La loro efficacia dipende sempre e comunque dall’azienda che ne farà uso.
Si parte quindi dalla scelta del materiale, che di per se (spesso) deve disporre di certificazioni, ad esempio in caso del biologico il filato deve disporre della certificazione GOTS, ma se questo verrà lavorato in Italia, anche l’azienda addetta alla lavorazione dovrà ottenere questa certificazione per poter utilizzare il logo GOTS nella propria comunicazione.
In sostanza, ci sono alcune regole che prevedono la certificazione dell’intera filiera, soprattutto laddove è necessario intervenire chimicamente sul materiale.
Se utilizziamo materiali come Piñatex, dobbiamo sapere che questo in origine dispone della certificazione OEKO-TEX e che oltre al taglio e cucito non possiamo fare nessun’altra lavorazione per renderla visibile magari nel nostro sito web. Ma se dovessimo applicare una spalmatura o una tintura, allora perderemmo il diritto di utilizzare il logo OEKO-TEX nella comunicazione.
Altra cosa importante è quella di “spiegarle al pubblico”, se è vero che molte certificazioni si stanno diffondendo a macchia d’olio e sono quindi facilmente riconoscibili dai consumatori, è compito di chi le utilizza quello di continuare a diffondere i loro standard. Questo fa parte del “marketing educazionale”, una strategia di cui non possiamo fare a meno.
Circolarità: un prodotto che usa materiali ecologici è davvero sostenibile nel lungo periodo?
Stando ai dati della World Footwear Yearbook (https://www.worldfootwear.com/news/footwear-production-with-new-record-of-243-billion-pairs/5356.html), solo nel 2019 sono state prodotte 24,3 miliardi di scarpe. Proviamo ad immaginare quante di queste finiranno nella raccolta indifferenziata e successivamente negli inceneritori.
Siano realizzate con materiali ecologici, siano in materiali sintetici, la differenza tra le due è davvero irrilevante.
E’ evidente che travolti “dall’ondata di sostenibilità” l’aumento di produzione e di uso di fibre definite a basso impatto ambientale ha fomentato attivisti ambientali e consumatori attenti a queste tematiche, tanto che molti produttori di questi materiali non riescono a stare dietro alla domanda di mercato.
Ma se vogliamo essere pignoli, ed è doveroso esserlo, solo una minima parte di questi è riciclabile alla fine del suo ciclo di vita. Possiamo quindi considerarli davvero sostenibili?
Il termine sostenibilità si sta evolvendo: se prima bastava un materiale composto dal 20% di fibre riciclate, oggi si punta a sviluppare materiali composti dal 100% di fibre riciclate, ma soprattutto riciclabili, o quantomeno compostabili a fine vita.
Motivo per cui nascono numerose società di capitali, soprattutto in ambito delle biotech. Incredible Cotton, Feature Fibres, Made of Air, sono alcuni dei nomi di cui dovremmo augurarci di sentir parlare nei prossimi anni: materiali SI a basso impatto ambientale, ma che allo stesso tempo vivranno più di una vita.
Circolarità è quindi la parola d’ordine. Ma questo non implica soltanto produrre materiali che abbiano questa caratteristica, ma anche rivoluzionare il settore chimico: colle, spalmanti, etc. Un materiale riciclabile ricoperto da sintetici non riciclabili torna ad essere un materiale non riciclabile, quindi ha poco di sostenibile.
Inoltre, i centri di raccolta dovranno comprendere i nuovi materiali per riciclarli nel modo corretto, e questo richiederà davvero molto impegno, formazione e informazione.
Una buona idea è far si che lo stesso produttore possa riciclare, o quantomeno scomporre le scarpe, accumulare i materiali che le compongono e fare in modo che questi vengano riciclati in modo corretto. Sembra utopia, eppure molti marchi di moda iniziano a farlo: offrono il ritiro gratuito dei prodotti una volta che il consumatore ne avrà fatto largo uso.
La strada è già stata delineata, ed è inutile rimandare. Per stare al passo, bisognerà evolversi in tal senso, e farlo nel minor tempo possibile.
Conclusione: consigli pratici per attuare una strategia di marketing sostenibile
In questo speciale abbiamo sintetizzato come si sta evolvendo il settore, quali dovrebbero essere gli obiettivi da raggiungere e come farlo nel modo giusto, senza cadere nella trappola del greenwashing. Ma è evidente che questa è solo una brevissima sintesi.
Si parte da quel che si ha e si punta a migliorarsi di anno in anno per raggiungere determinati obiettivi. E’ quindi scontato che il primo step sia quello di analizzare l’attuale situazione della vostra azienda: punti di forza e punti di debolezza.
Prima di tutto si deve capire se gli attuali punti di forza della vostra azienda possono essere esaltati a livello di comunicazione, ma soprattutto se possono essere migliorati ulteriormente.
Poi si lavorerà sui punti deboli, cercando un compromesso tra eventuali investimenti economici ed i benefici che potreste ottenere in ambito sostenibilità.
Quindi si crea una timeline di obiettivi da distribuire nel tempo e la si rende pubblica.
Per comunicare i valori e gli impegni in ambito ambientale o sociale non si deve aspettare il massimo della sostenibilità raggiungibile, sarebbe un errore. In questi casi è preferibile utilizzare una strategia semplice quanto efficace: lo storytelling, cioè raccontare come state intervendo per migliorarvi, giorno dopo giorno.
Si tratta di esporsi a livello umano, essere trasparenti e mostrare apertamente i propri limiti.
Consigliamo di focalizzarsi su un messaggio univoco, che sarà accompagnato da 1 o 2 messaggi di supporto.
Prendete un argomento che rispecchia davvero i vostri valori personali (magari con un sondaggio interno alla vostra azienda): cosa attira di più la vostra attenzione o di cosa avete più paura?
La plastica negli oceani, lo stato degli allevamenti intensivi, i cambiamenti climatici, lo sfruttamento sociale, l’inquinamento delle acque potabili, sono solo alcuni esempi.
In base alla risposta si crea una strategia di comunicazione reale, umana, senza dover trasmettere valori di cui la vostra azienda non dispone realmente. Credere in quel che si fa rende le cose più semplici e naturali, rendendo possibile il raggiungimento di una forma di successo della vostra comunicazione e, di conseguenza, della vostra azienda.
Due esempi pratici:
- Ritenete che la plastica sia il peggiore dei mali a livello ambientale.
Per le tomaie potreste utilizzare Econyl o un poliestere riciclato certificato GRS, il focus della vostra comunicazione potrebbe essere la plastica negli oceani, o quella abbandonata lungo le strade.
Oppure
- Ritenete che sfruttamento di manodopera a basso costo sia un problema sociale da debellare.
Le organizzazioni Fairtrade e Fair Wear Foundation, si occupano proprio di dar vita a comunità che possano lavorare e crescere serenamente. Potreste quindi utilizzare un materiale certificato da loro e basare su questo la vostra comunicazione.
Come avrete capito, si parte dall’identità aziendale e dalle cause che vorreste sostenere personalmente, solo successivamente si scelgono i materiali e le certificazioni che possano dar voce alla vostra impresa.