Trashion – nuova vita ai materiali di scarto
Negli ultimi anni si parla molto di sostenibilità e riciclo nel settore tessile. Dietro ogni sorta di iniziativa vengono coniati nuovi termini a volte sconosciuti affiancati a concetti di sostenibilità. Il Trashion è una di queste parole cui è diventata una vera tendenza nel linguaggio della moda… ma cos’è veramente il Trashion?
Dietro il termine Trashion c’è in realtà una filosofia e un’etica culturale che abbraccia l’ambientalismo e l’innovazione. Il connubio delle due parole “trash = spazzatura” e “fashion = moda”, per quanto insolito e ambiguo, vuol trasmettere e richiamare solo l’attenzione a ridurre l’effetto inquinante dei rifiuti e non identifica una nuova tipologia di moda. Chiarifichiamo anche che il Trashion, confusamente identificato anche come processo di upcycling e di recycling, non garantisce correttamente la sostenibilità circolare, in quanto ha il solo scopo di raccogliere oggetti in disuso, rifiuti in genere e avanzi della moda, per essere rivalutati e riutilizzati in nuovi prodotti e singoli oggetti d’arte.
Per quanto possa sembrare una recente novità, il Trashion nasce come stile artistico negli anni ’90 con progetti scolastici, mostre nei centri comunitari e come raccolta fondi con lo scopo di far sfilare le opere creative attraverso programmati eventi. Un’iniziativa, che trae ispirazione e origine dal pensiero filosofico giovanile nato intorno alla metà degli anni sessanta. In quegli anni difatti, il movimento divenuto essenzialmente un fenomeno di costume in tutto il mondo dai giovani hippy, che era incentrato pacificamente nel rifiuto delle convenzioni e delle istituzioni borghesi e nel rifiuto alle diversità con mobilitazioni di protesta per esercitare i diritti delle minoranze oppresse, si opponeva soprattutto al consumismo smodato, anticipando molte istanze ambientaliste, con l’interesse del ritorno alla natura.
L’anticonformismo degli hippy, fondato nei valori della “pace, amore e musica”, dove quest’ultimo ebbe un ruolo centrale come si ricorda nel grandioso evento festival rock tenuto a Woodstock nel 1969, si manifestava anche nell’abbigliamento, riutilizzando in parte capi datati o usati, acquistati nei mercatini dell’usato e/o ripresi dai bauli delle soffitte delle proprie famiglie.
Potremmo definirlo un remoto processo per il riutilizzo e la trasformazione dei prodotti di scarto, beni inutili o indesiderati, che si ripropone oggi, ma con nuove terminologie anglosassoni come “upcycling e recycling”. Vocaboli che non hanno convinto però gruppi oppositori ambientalisti, in quanto hanno subito ipotizzato che su tali termini di facciata legati alla sostenibilità, si potesse nascondere invece strategie di marketing atte a promuovere una produzione “fast fashion” o “low fashion” capace di generare ulteriore inquinamento ambientale.
Che cos’è l’upcycling e il recycling nel Trashion?
Per quanto sinonimi, i due termini usati nel Trashion si contraddistinguono in due processi distinti.
Il recycling nel Trashion è limitato ed è inteso come riciclo di capi d’abbigliamento o di intere linee di abbigliamento che sono rimaste nell’armadio per anni e/o inteso come forma di noleggio o di acquisto di capi vintage. Non è da confondersi con il processo meccanico in cui si cerca di recuperare le materie prime dagli oggetti smaltiti in discarica, in modo da rigenerarle e riutilizzarle, anche all’infinito, per riprodurre nuove materie prime, utilizzabili in nuovi prodotti.
L’upcycling, è invece l’arte di trasformare un prodotto di scarto o di accorparlo, senza distruggerlo, con altri diversi oggetti di rifiuto in modo di dargli una nuova identità. Realizzare oggetti tradizionali con materiali spazzatura può essere pertanto trashion, così come creare moda d’avanguardia da scarti o cianfrusaglie. Il termine è ora ampiamente utilizzato nei circoli creativi per descrivere qualsiasi oggetto o accessori indossabili, costruiti utilizzando in tutto o in parte i materiali dismessi, compresi i vestiti usati e ricondizionati.
Il Trashion, nato inizialmente per descrivere i costumi creativi art-couture, che erano solitamente legati a concorsi, ha preso una svolta del tutto poco condivisibile in quanto viene indicata come una moda “verde” riciclata, ma in effetti non lo è. Essa infatti, è stata talmente virale tra i social che non ha sottratto il settore moda ad impossessarsene come punto di ispirazione estetica costruendo però, con nuovi materiali e non recuperati, prodotti erronei per un consumatore orientato alla sostenibilità.
Dal no-profit al format-business
La nascita di eventi per questo tipo di sensibilizzazione sono sempre più aumentati negli ultimi anni ma con un effetto discordante. Dall’Australia all’Europa, dall’Africa all’America, i programmi di arti creative e ricchi di workshop, mostre, spettacoli e incontri, avevano come obiettivo quello di radunare dei gruppi di lavoro collettivo, per adoperarsi su uno specifico argomento e con l’interesse di far sfilare le opere di moda e magari venderle come opere d’arte. Una sorta di artigianato singolare dove la creatività anche se assurda era ben accolta in quanto legata per una causa ambientale.
Di questi si possono ricordare, un gruppo di giovani “stilisti” di età compresa tra i 12 e i 25 anni che, nel 2015 a Melbourne, hanno trasformato degli oggetti di scarto in originali creazioni di moda. Anche In Nigeria dal 2012, The Green Fingers Wildlife Initiative Trashion Show è un evento culturale annuale che celebra il design creativo della moda e promuove la riduzione dei rifiuti e la sostenibilità. Ulteriormente si aggiungono anche quelli comunitari del Bainbridge Island Trashion Show che sono eventi organizzati per ridurre la quantità dei rifiuti acquistando i materiali negli smaltimenti e trasformandoli in opere d’arte.
Da tali eventi non sono mancati appunto di farsi notare dei veri e propri creativi, ma il format di questa iniziativa è stato quello che più ha maggiormente ispirato alcuni brand di moda.
Ne è un esempio il progetto Recicla Tabi, di Maison Margiela, che ha fatto dell’upcycling il medium perfetto per permettere a tre giovani artisti di reinterpretare l’iconica scarpa del brand della moda in edizione limitata utilizzando come principio dello scarto di pellame rimanente,
I diversi casi del Trashion Luxury
Da ogni fonte di ispirazione alla moda il passo è breve, ma è anche vero, che per quanto la moda ha cercato sempre di costruire dei canali di estensione e di confronto con l’arte, con la musica, con la politica e la filosofia giovanile, è stata sempre criticata di appartenere ad un settore diverso, a volte frivolo e a volte cinico, il cui obiettivo era soprattutto improntato verso il business e non verso una ottica intellettuale.
Tutto ciò è successo difatti a diverse case di moda che sono state accusate per la loro insensibilità su un argomento così delicato e di fronte ad un messaggio così filosofico e culturale che è racchiuso nel termine trashion. Non solo, l’ispirazione agli oggetti d’arte realizzati dai creativi che sostengono un argomento così sensibile, hanno dato vita nelle passerelle delle sfilate a dei prodotti con un look “trash” con materiali che non erano affatto di scarto e rivolto esclusivamente a clienti milionari.
Già in passato, lo stilista Gianni Versace ha cercato di far apparire punk/rock le proprie collezioni ispirandosi ai gruppi giovanili del nord Europa, ma in realtà questa era solo una facciata estetica in quanto i veri messaggi dei ragazzi di strada erano ben altri.
Attualmente, sembra che il più criticato sia stato Balenciaga proponendo delle sneakers stracciate denominate Paris (6) a £ 1.290. Segue la borsa “Raindrop Besace” di Louis Vuitton d’ispirazione ad un sacco di immondizia (7) a £ 1.602 e le borse di plastica della spesa di Celine a £ 475 ciascuna (11). Le sneaker distrutte denominate Future a £ 1.175 di Maison Margiela che nei materiali tenuti insieme da una moltitudine di graffette sono dotate di graffi, pelle strappata, buchi aperti e imbottitura in schiuma a vista (8). Non sono da meno anche le sneakers sciupate di Gucci (9) a £ 675 e le scarpe schizzate di vernice (10) di Dolce & Gabbana a £ 470.
L’ecologismo di facciata di questi brand di moda è purtroppo solo un fenomeno del greenwashing, in quanto, e per quanto vogliono comunicare di essere eco-friendly, in realtà invece non lo sono.
L’unica stilista a discostarsi da queste tendenze, forse perché è stata la prima e con un pizzico di ironia nelle proprie collezioni punk/rock a sostenere una correlazione tra estetica e la vera comunicazione idealista, è Vivienne Westwood che ha lanciato invece un messaggio di non continuare a comprare l’ultima tendenza in quanto fuorviante.
altro-consumo o anti-consumo?
La risposta alla domanda è la chiave di tutto ed è “consapevolezza”.
Gli attacchi dei movimenti ambientalisti con azioni di boicottaggio al sistema moda è andato sempre più intensificandosi negli ultimi anni, criticandolo di essere tra i primi settori in termini di impatto sociale e di emissioni di inquinamento.
Anche se spesso ogni azione di protesta sembrerebbe incentrata al solo fatto di contestare, esiste in effetti una distolta informazione. A volte difatti sono gli stessi attivisti ad essere i consumatori irrefrenabili dei beni tessili marchiati a brand, per usarli poi come segnali impropri di identificazione e di appartenenza sociale.
È ora di incentrarsi su un argomento serio e sensibile come la sostenibilità circolare. Bisogna essere consapevoli e non ironici su una problematica che sta investendo tutto il Pianeta, attivandosi nel seguire le normative di carattere ambientale proposte dall UE.
I primi promotori del cambiamento dovranno essere proprio le imprese affinché avvenga una reale e profonda trasformazione, le aziende difatti dovranno internalizzare i principi e i modelli dell’economia circolare, oltre ad assumersi la responsabilità dell’intero ciclo di vita dei prodotti, comprensivo dunque del fine vita.
Che l’industria della moda voglia ispirarsi alla musica, alla politica o alla filosofia giovanile lo faccia pure ma con misure anti-greenwashing e senza prostrare i loro ideali, che esso siano di carattere ambientale, politico o rock.